
Silvio Sarno, Presidente Atecap
Oltre 600mila, tra addetti e indotto, hanno perso il lavoro in cinque anni, un calo del giro d’affari nello stesso periodo di oltre il 29% in termini reali, quasi tre punti di Pil persi e almeno 25 miliardi di euro non incassati dall’erario.
Sono le cifre crude della crisi dell’edilizia in Italia; crisi senza precedenti che ha visto l’apice nel 2012: i numeri europei e quelli italiani in particolare evidenziano una situazione drammatica nel mondo delle costruzioni ma ancor di più nel settore del calcestruzzo.
Questa situazione è aggravata se si pensa che proprio l’industria delle costruzioni garantisce il funzionamento fisico del Paese, lo aiuta a crescere, lo sostiene e ne può determinare l’uscita dalla crisi, così come contribuire in maniera determinante a rilanciare un nuovo sviluppo.
In cinque anni, dal 2007 al 2012, la produzione del calcestruzzo preconfezionato si è quasi dimezzata, -44,4%, circa 6 punti percentuali in più della media europea, passando nel periodo considerato da 72,5 a 40,2 milioni di metri cubo.
Nel solo 2012 rispetto all’anno precedente si è registrato un -22,5% e le previsioni scontano ancora l’assenza di reali segnali di interruzione della tendenza recessiva: 20,7% è il dato di chiusura stimato per il 2013 e -11,5% è la prospettiva per il 2014.
La crisi non accenna a placarsi, ha colpito i driver fondamentali dell’industria del calcestruzzo: gli investimenti in opere pubbliche e le nuove costruzioni abitative.
È necessario prendere atto che sono irrimediabilmente cambiati gli equilibri di un mercato che si è drasticamente ridotto e che non ritornerà ai livelli pre-crisi né a breve né a medio termine.
Più in generale il mondo delle costruzioni deve affrontare e gestire un «problema di selezione», ci sono troppi operatori per poco mercato e in particolare l’offerta produttiva del settore del calcestruzzo è sovradimensionata di quasi il doppio rispetto alla potenziale domanda attuale e futura e va razionalizzata perché non si avranno più i volumi del passato.
E non è un diktat, vanno tenuti presenti altri aspetti alla base di una simile considerazione che si ravvedono nelle caratteristiche stesse dell’industria del calcestruzzo preconfezionato. Un’industria che produce un output che non può essere stoccato in magazzino e che non può essere esportato all’estero o venduto oltre una breve distanza rispetto a dove è stato confezionato.
Uno dei suoi punti di forza è il «localismo», la «territorialità», che paradossalmente nell’attuale congiuntura si trasforma in un punto di criticità. Il calcestruzzo è un materiale da costruzione di provenienza e di produzione locale.
Questo aspetto contribuisce sicuramente a rafforzare il legame di una struttura con il territorio e genera indubbiamente vantaggi non solo per la sostenibilità dell’opera ma anche per la crescita economica e il benessere delle comunità locali. Ma in una situazione di dimezzamento della produzione ciò si traduce anche nel tenere inattivi gli impianti nella speranza che riparta la domanda oppure nel decidere di chiuderli definitivamente. Ciò rende ancora più indispensabile mettere in campo tutto il possibile per cercare di direzionare tale inevitabile fase di ristrutturazione.
In questa azione l’Atecap si è fortemente impegnata e rivolge un invito a tutte le altre categorie del suo indotto. La sfida da cogliere è quella di far rimanere sul mercato le imprese realmente qualificate e meritevoli poiché rispettose delle regole concorrenziali e delle norme che le presidiano, indipendentemente dalla loro dimensione aziendale.
In questo modo la crisi da via senza uscita potrà trasformarsi in un’opportunità per un futuro dell’industria del calcestruzzo preconfezionato. E questo non si potrà fare se non stimolando fortemente i meccanismi naturali del mercato, puntando innanzitutto a superare la facile concorrenza fondata esclusivamente sul prezzo più basso che solo se accompagnata dal rispetto delle regole porta a tutelare le imprese più virtuose e a espellere gli operatori improvvisati e le infiltrazioni malavitose. Per la verità il mercato ha già iniziato a determinare contrazioni della struttura produttiva.
L’aumento dei fallimenti nelle costruzioni è proseguito anche nel 2013, dal 2009 agli inizi del 2013 il dato ci indica che circa il 23% dei fallimenti avvenuti in Italia riguardano le imprese del settore costruzioni. E le difficoltà si evidenziano anche dalla crescita dei protesti, sebbene nessun settore sia stato risparmiato dal fenomeno, nel 2012 si contano quasi 11mila società protestate nelle costruzioni, in aumento del 9,1% rispetto al 2011.
Chi maggiormente fa le spese di questa situazione tuttavia non sono gli operatori improvvisati, a volte veri e propri avventurieri, se non peggio, ma le imprese sane. Occorre reagire subito contro questa tendenza, occorre fare in modo che nel mercato siano introdotte regole in grado di assicurare una selezione virtuosa, capace, cioè, di contenere, emarginare e annullare gli effetti di una concorrenza scorretta posta in atto da soggetti che non rispettano le regole.
Albert Einstein sosteneva che «la crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi». Gli imprenditori hanno il dovere morale di credere in questo, la crisi è una possibilità di crescita, per il bene della categoria, per il futuro del Paese e non è una via senza uscita, può essere un’opportunità per il futuro se consentirà di selezionare dal mercato le imprese sane e di qualità.