Il terribile sisma del 24 agosto scorso, nonostante i pochi anni di distanza dagli eventi catastrofici de L’Aquila e dell’Emilia Romagna, ha mostrato nuovamente la nostra inadeguatezza non tanto nell’affrontare l’emergenza, momento nel quale il nostro Paese dà ottima prova di sé, ma nella capacità di mettere in campo un piano organico per prevenire e limitare i danni provocati dalle catastrofi naturali e garantire più sicurezza ai cittadini. Ancora una volta, ci siamo accorti che migliaia di edifici necessitavano di urgenti interventi di messa in sicurezza solo dopo che sono crollati.
Tuttavia, le iniziative e il dibattito che si sono aperti nelle ultime settimane e soprattutto il rapido avvio, da parte del Governo, del programma «Casa Italia» per la messa in sicurezza e ricostruzione dei territori a rischio sismico, fanno ben sperare che si possa finalmente dare il via a una nuova stagione che poggi innanzitutto sulla presa di coscienza che si tratta di interventi non più procrastinabili.
A cominciare da quel grande piano di prevenzione del rischio sismico che, come Ance, riteniamo sia il punto di partenza di ogni riflessione sulle misure da mettere in campo. In questa direzione, va infatti il nostro contributo di proposte, che abbiamo consegnato nella mani del presidente del Consiglio Renzi e del sottosegretario De Vincenti. Per quanto riguarda il patrimonio pubblico è fondamentale il rapido avvio di un piano di prevenzione del rischio sismico che, sul modello di quanto già fatto per la sicurezza delle scuole e il dissesto idrogeologico, preveda procedure snelle e una ricognizione delle risorse a disposizione così da concentrarle su interventi mirati.
Sul fronte del patrimonio edilizio privato, invece, l’Ance sta già esaminando lo stock esistente, distinto per destinazione d’uso, epoca di costruzione e tipologia della struttura edilizia, a seconda della zona di rischio, in modo da quantificare la dimensione necessaria degli interventi di messa in sicurezza.
Le prime stime evidenziano un enorme numero di edifici insicuri e obsoleti presenti su tutto il territorio: basti pensare che il 74% degli immobili residenziali nelle zone a maggior rischio è stato costruito prima dell’operatività della normativa antisismica. Una questione enorme che va affrontata una volta per tutte a cominciare, appunto da un’opera capillare di sensibilizzazione collettiva al problema.
Per farlo, come Ance riteniamo si debba procedere attraverso quattro linee d’azione, che mirano ad aumentare il livello di conoscenza e consapevolezza da parte di cittadini, amministratori e di tutti gli attori coinvolti, e a garantire concretezza agli interventi da mettere in atto.
Per prima cosa proponiamo, quindi, che a tutti i contratti di trasferimento della proprietà o di locazione di un bene sia allegata la documentazione, messa a punto sulla base delle informazioni rese disponibili dalle istituzioni nazionali e locali, che attesti il rischio e fornisca informazioni sull’immobile.
In secondo luogo, va introdotta l’obbligatorietà della diagnosi dell’edificio, o di più edifici connessi, dal punto di vista del rischio statico, antisismico e, più in generale, della sicurezza, in funzione della tipologia costruttiva e dello stato di conservazione.
Si tratta di un aspetto fondamentale, perché da esso deriva la reale cognizione della vulnerabilità del patrimonio. Una misura, questa, da sostenere e accompagnare con la detrazione fiscale dell’intero costo necessario per la diagnosi degli edifici nelle zone sismiche 1 e 2, quantomeno per quelli realizzati prima del 1974.
Con riferimento alle nuove abitazioni, è opportuno, poi, introdurre l’obbligo di fornire all’acquirente, all’atto del rogito, la documentazione relativa alle caratteristiche tecniche e statiche dell’immobile, assieme alla descrizione delle azioni necessarie per una corretta manutenzione dell’edificio.
Un altro elemento fondamentale è l’utilizzo della leva del 65% per consentire di realizzare gli interventi di adeguamento sismico e messa in sicurezza di interi edifici, possibilmente riducendo i tempi rispetto ai 10 anni previsti dalla legislazione vigente, e rimuovendo i limiti che restringono il beneficio alle sole prime case e agli edifici a destinazione produttiva.
Nel caso, poi, di famiglie che non sono in grado di sostenere economicamente l’impatto economico dei lavori, si può prevedere il coinvolgimento di banche, fondi, o della Cassa Depositi e Prestiti.
Sarebbe, infine, necessario fissare un termine preciso per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza: 10 anni per gli edifici in zona 1, 20 anni per quelli in zona 2. Prevedendo sanzioni stringenti per chi non mette a norma, fino ad arrivare alla non cedibilità dell’immobile o all’esclusione della possibilità di accesso a contributi pubblici per la ricostruzione in caso di eventi calamitosi.
Le cose da fare sono molte e tutte urgenti, è un vero e proprio banco di prova per l’intero Paese e in primis per il nostro settore, chiamato a fare la propria parte nell’interesse comune.
Per questo riteniamo indispensabile introdurre, anche nel settore privato, una qualificazione di tutta la filiera, che tenga conto del know how aziendale, della capacità di organizzare e controllare il processo produttivo, per garantire la corretta e adeguata realizzazione degli interventi, anche attraverso l’utilizzo delle più moderne tecnologie.