
Gastone Ave | Ordinario di Tecnica e Pianificazione Urbanistica, Università di Ferrara.
Gli attentati terroristici di Parigi del novembre 2015 hanno spinto il governo italiano ad annunciare, tra le altre cose, un investimento straordinario volto a migliorare le condizioni di vita nelle periferie delle città metropolitane. Nell’annuncio dato dal capo dell’esecutivo, Matteo Renzi, i 500 milioni di euro stanziati dovranno servire «per interventi di riqualificazione e di ‘rammendo’, «per usare le parole del maestro Renzo Piano. Questi progetti dovranno essere presentati entro la fine dell’anno e dovranno essere spesi entro il 2016».
Nelle intenzioni del Governo vi è un chiaro parallelismo tra le misure di sicurezza che saranno adottate (presentate senza necessità con il termine inglese cybersecurity) e gli interventi sociali da attuare: «Per ogni investimento in polizia, ci deve essere uno sforzo maggiore di pulizia delle nostre periferie. Per ogni caserma ristrutturata vogliamo un museo più accogliente. Per ogni mezzo blindato in più, un campo da calcetto. Per ogni arma, un canestro per le strade».
Da quanto sopra riportato l’investimento di 500 milioni dovrebbe portare a maggiore pulizia nelle periferie, alla ristrutturazione di caserme, alla creazione di spazi sportivi (campi di calcetto, campi di pallacanestro ecc.). C’è da rimanere perplessi di fronte alla vaghezza di simili propositi. Va bene che si tratta di annunci fatti a caldo, e quelli sopra riportati sono solo degli esempi. Ma l’argomento è estremamente serio e le intenzioni del tutto condivisibili.
Non è da oggi che gli urbanisti denunciano lo stato di grave assenza di coesione sociale di molte periferie italiane anche se inferiore a quella di grandi città nei maggiori paesi europei. I palazzoni di edilizia pubblica degli anni Sessanta e Settanta sorti nelle periferie da soli producono emarginazione, ma nulla di socialmente pericoloso. Per arrivare a essere fucina di potenziali aspiranti terroristi le periferie debbono concentrare un mix di fattori ambientali, economici e sociali che impediscono, soprattutto ai giovani, di immaginare un proprio futuro integrato nella società che li circonda.
In Italia, salvo qualche eccezione, non è presente nelle periferie questa miscela esplosiva di emarginazione assoluta che può portare i residenti ad abbracciare una qualunque causa che parli loro di futuro, anche se illegale e di tipo terroristico. Ciò consente a noi tutti di lavorare affinché si allarghi ancora di più la differenza qualitativa tra le periferie delle nostre grandi città e quelle presenti altrove, per esempio in Francia, Belgio e Germania.
L’annuncio del Presidente del Consiglio è stato in genere accolto con favore dai media e dagli esperti. Per esempio il presidente del Consiglio nazionale degli architetti italiani, Leopoldo Freyrie, ha sostenuto che «la riqualificazione delle periferie è una operazione che gli architetti italiani sollecitano da tempo» come un grande investimento sociale. Dopo l’annuncio, però, è d’obbligo chiedersi se alle intenzioni corrispondono mezzi adeguati. Le cose vanno pianificate, non improvviste. Se i 500 milioni sono destinati a progetti da presentare entro la fine di dicembre 2015 è chiaro che gli unici progetti possibili sono quelli già presenti nei cassetti delle amministrazioni locali, al di fuori quindi di ogni programmazione. Inoltre, la cifra a disposizione ripartita tra tutte le città metropolitane si riduce a pochi milioni per ogni città. Si potranno finanziare progetti leggeri (i citati campi di calcetto, per esempio), nel migliore dei casi il riuso di qualche caserma.
Concordato che il tema è serio, che ben venga la rinnovata attenzione del governo per le periferie, che i 500 milioni annunciati sono più di zero, tutto il resto è da fare. E non con altri annunci. Serve un programma nazionale di intervento per le periferie italiane, a cominciare da una fase uno che dovrebbe riguardare le città metropolitane, ma che comprenda anche una fase due mirata alle aree periferiche delle tante città medie e piccole presenti in Italia. Vista l’intenzione del governo di intervenire sulle periferie, è importante che le associazioni professionali e le imprese dicano una cosa molto semplice: con 500 milioni una tantum non si raggiunge l’obiettivo.
Un programma nazionale di rigenerazione delle periferie italiane andrebbe sostenuto da un finanziamento ordinario annuale e ricorrente dell’ordine dei 5 miliardi di euro per avere qualche possibilità di incidenza concreta entro i prossimi 10 anni. Dove prendere tali risorse? Basterebbe che le tasse sulla prima casa e le tasse sulle seconde case date in uso a parenti non venissero abolite, come invece il governo vuole fare nel 2016, e che il ricavato fosse destinato a un fondo nazionale per la riqualificazione delle periferie.